Vendor lock-in: le 5 best practice per evitarlo

Vendor lock-in: le 5 best practice per evitarlo

Tra i numerosi vantaggi del cloud, uno dei più apprezzati, almeno sulla carta, inizialmente era la possibilità di acquistare maggiore autonomia nella scelta di un fornitore e cambiarlo nel tempo. Un’opportunità in grado di superare uno dei grandi problemi delle aziende più articolate, con un’infrastruttura IT cresciuta nell’arco di diversi anni: il vendor lock-in, quella situazione in cui un’azienda diventa dipendente da un fornitore specifico per i suoi prodotti o servizi, rendendo difficile o costoso passare a un altro fornitore. 

Quella dipendenza da un fornitore, dove risultava più conveniente assecondare spese crescenti in sede di aggiornamento o assistenza di un hardware, sembrava essere superata. Il lock-in invece è rimasto, ha cambiato aspetto ma i rischi e le conseguenze sono praticamente le stesse. Trovarsi a non poter cambiare il fornitore di un servizio in cloud a meno di affrontare spese importanti, per esempio per il trasferimento dei dati, per la loro conversione o la riprogettazione di moduli a causa di incompatibilità, sono solo alcuni dei rischi spesso nascosti dietro tariffe di ingresso e canoni all’apparenza convenienti.  

Anche in questo caso però, una soluzione esiste e la sua efficacia è tanto maggiore quanto la questione lock-in viene affrontata per tempo. Meglio ancora se a partire già dalle fasi di valutazione di un preventivo nel momento di acquistare o trasferire un servizio in cloud.  

Con l’aumentare dell’offerta, l’evoluzione delle aziende e i bruschi cambiamenti di scenario, oggi la questione è particolarmente delicata, anche se il problema si presenta da qualche tempo. Già nel 2020 infatti, una ricerca di Bain & Company condotta a livello CIO aveva permesso di scoprire come il 65% di aziende considerasse indispensabile una strategia multicloud. Dichiarazioni, tuttavia, in netto contrasto con una realtà dove il 71% delle organizzazioni si affidava a un unico provider e un altro 21% comunque indirizzato per larga parte sullo stesso fornitore. Sfuggire al lock-in è però possibile e per riuscirci può essere utile seguire cinque semplici indicazioni.  

 

Cinque passi per un cloud a prova di lock-in 

  1. Prima di tutto, è fondamentale conoscere esattamente la propria infrastruttura, l’organizzazione con tutti i relativi utenti e strategie, oltre agli obiettivi futuri. In pratica, è importante partire da un assesment. In particolare, capire quali componenti possano essere trasferiti in cloud e quali invece generebbero più costi di benefici.  Per esempio, la presenza di tecnologie legacy difficilmente va d’accordo con il cloud, a meno di ingenti investimenti per la riprogettazione del software. Più in generale, un discorso da estendere a ogni servizio candidato all’esternalizzazione, valutando anche la capacità del provider di garantirne la compatibilità, con modalità d’uso e prestazioni almeno al livello di quelli in atto.  
  2. Una volta chiarite le idee, sarà più facile passare alla fase successiva, la selezione vera e propria del provider. Il canone è certamente un aspetto rilevante, ma solo il primo. Spesso, i problemi maggiori per il lock-in si nascondono proprio dietro costi di ingresso all’apparenza convenienti. Dove si è costretti ad adeguarsi a direttive del fornitore invece del contrario, sorgono i primi indizi. Soprattutto, deve essere chiara la libertà di continuare a gestire i propri dati in autonomia, e in particolare la possibilità di trasferirli senza ostacoli.  
  3. Questo è probabilmente il punto più delicato, dietro l’apparente facilità di accedere al cloud, si nascondono infatti problemi pronti a emergere solo in fase di un eventuale recesso. Un formato di memorizzazione remota non abbastanza considerato al momento del trasferimento può di fatto rivelarsi un ostacolo superabile solo a caro prezzo. Oltre a sicurezza e affidabilità del servizio, l’accessibilità e lo standard nel formato sono elementi da valutare con attenzione. L’uscita da un cloud deve essere facile tanto quanto l’ingresso.  
  4. Da questo scaturisce un altro punto cruciale. Dove possibile, è consigliabile sviluppare, o adattare, applicazioni seguendo standard open source. Tecnologie tra le più utilizzate come Python o Kubernetes non solo sono svincolate da un particolare fornitore. Permettono anche di contare su un’ampia disponibilità in materia di formazione, servizi e supporto con la libertà d’azione desiderata, anche in caso di migrazione. Significa inoltre avere maggiore autonomia nella scelta dei partner. Un provider restio a garantire supporto a questo genere di strumenti è già da valutare con qualche riserva. 
  5. Per raggiungere questi obiettivi è altrettanto importante poter contare su risorse preparate e competenti. Un’attività dalla quale pochi possono chiamarsi fuori. Se spetta infatti al CIO e al reparto IT individuare le tecnologie e il fornitore in grado di garantire flessibilità e disponibilità nel tempo, al costo anche di maggiori investimenti di tempo e denaro in fase di migrazione, il management ha invece il compito di non limitarsi a valutare l’operazione solo dal punto di vista economico. Più la decisione sarà informata e condivisa, più efficace sarà l’investimento sotto ogni punto di vista.  

Se tutti questi passaggi sono seguiti con cura, alla fine l’ultimo si rivelerà quasi naturale. Una fase di analisi e studio condotta al meglio, alla fine, porterà quasi sicuramente verso una soluzione multicloud. Per quanto all’apparenza più onerosa e complessa, soprattutto nelle prime fasi, puntare su standard open source e sulla ricerca della migliore soluzione per ogni servizio, alla fine si tradurrà facilmente in efficienza e risparmio nel lungo perodo.